Per imparare l’arte vai un po’ in disparte!
Uno strumento eccezionale usato in tutti i mondi: fanno un ritiro le squadre sportive, ma lo fa anche il mondo aziendale per il team building ed esistono i ritiri spirituali in ambito pastorale.
Non dobbiamo lasciarci prendere dalla valenza tendenzialmente negativa anche se sono tanti i punti per crederci: la “ritirata” in campo militare e il “ritirarsi” da una competizione descrivono momenti non proprio edificanti. Anche il molto usato “Ma ritirati!”, dà l’idea che qualcuno non sia stato in grado di reggere il peso dell’obiettivo prefissato.
Eppure, il termine “ritiro”, con le sue verbalizzazioni “andare in ritiro”, “fare un ritiro”, ha una connotazione assolutamente positiva. Indica il bisogno di ricaricarsi in qualche modo, di valutare più lucidamente e con calma come stanno andando le cose. In qualche modo, è riuscire a ridefinirsi.
Lo fa perché ha in sé le due tensioni del sottotitolo: andare in disparte e imparare l’arte.
“Andare in disparte” è la parte più conosciuta. Un luogo staccato dal solito tran tran quotidiano. Possibilmente bello, evocativo. Un luogo dove possiamo ritrovarci con noi stessi e con gli altri. Ma non ci si ferma lì.
L’ “andare in disparte” è anche per i nostri pensieri negativi, per le preoccupazioni, i timori. Staccarsi anche da loro per vedere le cose in un altro modo, per ascoltarci un pensiero “altro” che magari viene proprio da qualcun altro.
“Imparare l’arte” è la parte spesso più inaspettata. In un vero ritiro, e non solo in quello sportivo, si fa molto esercizio. Si lavora. Da artisti. Non si pensa alla produzione, alla quantità. Ma al capolavoro e alla qualità. Capolavoro non perché opera perfetta ma perché capo-lavoro, inizio, principio di un nuovo modo di lavorare, di pensare, di vivere.
I due poli ci dicono i tre passi del ritiro:
1) Silenzio per accordarsi
Oggidì, fare silenzio è qualcosa che fa paura: paura di perdersi, paura di sentire qualcosa che non vorremmo. Eppure il silenzio ci aiuta. Ci purifica. Ci fa decantare il frastuono, per sentire il suono che ha senso e da senso.
Senza silenzio non potremmo ascoltare.
2) Obiettivo da ascoltare
Non si fa silenzio per stare zitti. Ma per ascoltare. Cosa? La proposta del ritiro, il cambiamento che vogliamo affrontare insieme, il nuovo gioco di squadra… poco importa cosa, importa che è ciò che dà senso al ritiro stesso.
È il motivo per cui stacchiamo i cellulari, smettiamo di pensare alle solite urgenze. Spesso è l’ascolto dell’obiettivo che dà senso al silenzio, che diventa il luogo dove far risuonare quanto sentito. Per evitare di pensare sempre e solo di pancia.
3) Rielaborazione per condividere
È il momento finale, spesso sminuito. La rielaborazione di gruppo è la chiusura di un percorso interiore e collettivo, il donarsi a vicenda ciò che abbiamo interiorizzato.
La rielaborazione non è intimismo: a livello personale fissa meglio cosa abbiamo vissuto, a livello di gruppo aiuta a migliorare la concezione dello stesso, le relazioni al suo interno.
Oggi come oggi, in vari ambiti, bisogna impegnarsi per trovare il tempo di darsi… del tempo.
Il “ritiro” ridona vita alla quotidianità, ridà vigore e, nello stesso tempo, fa riflettere su quello che si sta facendo, come singoli o come collettività.
Ed eventualmente, riesce a farci finalmente accorgere anche di alcuni errori, magari derivati da abitudini che, nel routinante tempo del quotidiano, sono diventate quantomeno sterili.
Per questo da un ritiro si torna più stanchi ma anche più carichi, perché ci siamo staccati da tutto per lavorare su di noi. Possiamo partire dal corpo, dall’anima, dalla vita professionale torniamo sempre a toccare tutto noi stessi. Per questo un ritiro ci può cambiare la vita.
Don Tonino Bello evidenziava che Gesù, quando andava “in disparte”, quando si ritirava nel deserto a pregare, non lo faceva perché odiasse la città e amasse solo i luoghi silenziosi. Anzi, lo faceva proprio perché amava la città; aveva bisogno di staccarsi da essa soltanto per vederla meglio, da più lontano, per poter rielaborare.
È un’immagine forte ma che vale anche per aziende, gruppi di lavoro, gruppi sportivi: proprio perché amiamo il nostro lavoro, il nostro sport, il nostro “fare” che ce ne stacchiamo. Per correggerlo. Per migliorarlo.
In questo modo il ritiro ci fa ritrovare un po’ di luce anche se il contesto è scuro, ci fa scoprire quelle lampade nascoste di cui ignoravamo l’esistenza o che avevamo considerate perse.
E la luce da sempre è simbolo di creatività, di nuove idee, di consapevolezza.
Una luce ritrovata. Nel silenzio. Nell’ascolto. Nella condivisione.
In un ritiro.
QUALCHE CONSIGLIO PER PREPARARE UN RITIRO AL MEGLIO
- Scegliete un posto bello e anche un po’ isolato per poter staccare realmente. Vanno bene i luoghi immersi nella natura ma anche gli hotel di un certo livello qualitativo. Quello che conta che sia curato.
- Essendo un tempo speciale, staccato dal tran tran, curate tutti quegli aspetti che viviamo sempre ma che al ritiro devo avere un’altra cura: il mangiare insieme, le pause, la proposta di eventuali film…
- Favorite per quanto possibile, il passeggiare, il muoversi.
- Create delle zone di “silenzio” sia in termini di tempi che di luoghi. Pensate anche a dare qualcosa da fare per non perdersi nel silenzio e soprattutto per chi non è abituato, pensate a delle persone che possano parlare con quelli che non ce la fanno… a patto che si resti sul tema del ritiro stesso.
- Curate bene il setting, che oltre la location prevede l’ambientazione: la scelta di simboli, slogan…
- I tempi sono fondamentali: il momento condiviso del lancio dell’obiettivo dev’essere bilanciato rispetto alla tempistica del “ritiro”; un conto è se si parla di una settimana, altro è una sola giornata.
Gigi Cotichella
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