Il formatore non è esente dai pregiudizi sui discenti. Anche per lui la prima impressione conta. La vera sfida: andare oltre e conoscere la persona.
Esame di coscienza sui pregiudizi. Tranquillo, non sentirti in colpa!
Dai, iniziamo questo articolo con sincerità.
È capitato a tutti (e continuerà a capitare) di generare nella mente un’impressione sulla base a ciò che percepiamo dalla nostra platea. È del tutto naturale, infatti la mente non può fare a meno di ordinare il mondo che la circonda, o meglio, non può fare a meno di conoscere il mondo attraverso categorie. Ne ha proprio necessità perché possa crearne conoscenza.
Categorie necessarie
L’essere umano ha bisogno di categorizzare per mettere ordine, lo facciamo più o meno consciamente anche nelle relazioni. Nel mondo della formazione queste stesse dinamiche emergono proprio perché il formatore non è un automa, non ha una scienza asettica da trasmettere, ma vive della relazione con i formandi e utilizza le dinamiche relazionali dentro l’incontro formativo per avvicinare la propria platea al tema. Ogni formatore (o qualunque persona incaricata di accompagnare qualcun altro) non è fatto di compartimenti stagni, per cui non è possibile suddividere in maniera netta i tratti della personalità con quelli professionali.
Vigilare sempre!
È possibile lavorare sul nostro sguardo sull’altro. E’ un rischio che accomuna tutte le diverse figure educative nelle diverse fasi di lavoro: far crescere, accompagnare, aiutare a potenziare le persone che vengono loro affidate. Il formatore deve compiere uno sforzo in più in funzione del ruolo che ricopre. Questo richiede saper “leggere” in chi abbiamo davanti quali sensazioni comunicano a prima vista, cosa fanno emergere a livello caratteriale nel corso dell’incontro una volta che si trovano davanti al tema, ma anche quale approccio utilizzano con il formatore e tra gli stessi componenti del gruppo. Tutti questi dati sono fondamentali anche per comprendere in prima persona che cosa suscitano al nostro interno e di fronte a questo qual è l’atteggiamento che assumiamo.
Una corsa ad ostacoli
La gestione attenta dell’incontro formativo può diventare veramente un campo minato. Il formatore corre il rischio di cadere in giudizi affrettati o in atteggiamenti stereotipati ogni qualvolta incontra determinate “categorie” di persone. Ma siccome siamo esseri umani, lo abbiamo detto prima, non staremo qui a fare un processo verso i formatori, ma prenderemo in considerazione i concetti di pregiudizio e stereotipo, vedremo alcuni esempi concreti di situazioni rischiose per il formatore, dando opportunità e strumenti per svolgere al meglio questo nostro bel lavoro. Vediamoli insieme.
Dall’idea al pregiudizio
Tutto parte dal fatto che ognuno di noi ha delle idee di base, sul mondo, sulla vita, su come stare dentro le situazioni. Con il nostro bagaglio personale leggiamo ciò che incontriamo.
Quando si forma, ma in generale ogni volta che si lavora con le persone, si fanno i conti con la diversità. Incontriamo vite diverse, modalità di pensiero più o meno vicine alle nostre e non sempre diventa automatico vedere nella diversità una risorsa come capita di vedere sempre più spesso anche nella vita quotidiana. Di fronte ad altro diverso da noi si può assumere un atteggiamento che va a prenderne le distanze e lo si fa proprio a partire dal pensiero che tende ad esprimere un giudizio rispetto a quella persona.
Un giudizio che non è dettato da un’esperienza diretta di qualcosa o qualcuno, ma semplicemente basato su un’opinione non fondata. Questo è il pre-giudizio, che letteralmente sta ad indicare il giudizio espresso prima di conoscere e che va solitamente ad influire sui comportamenti e le azioni che possiamo produrre nei confronti di una persona o di qualcosa. Si spinge la mente a ricercare tutte quelle informazioni che confermano quell’opinione.
Dove si insidia il pregiudizio
Il pregiudizio intacca la sfera personale e ci fa assumere degli atteggiamenti negativi nei confronti di una persona. Per esempio se nel corso di un momento formativo una persona tenderà sempre a parlare mostrando delle opinioni discostanti dalle nostre, la nostra mente sarà tentata di vedere in quell’individuo una sorta di disturbatore, provocatore, minaccia per certi versi rispetto a quello che stiamo portando all’attenzione. Viviamo la voce fuori dal coro come un sabotatore.
Il pregiudizio non risiede nella situazione che va a crearsi, ma piuttosto nelle reazioni che come formatore assumerò in maniera negativa di fronte a quella persona, come ad esempio non darle più la possibilità di esprimersi favorendo invece un confronto con tutto il resto del gruppo. Una sorta di allontanamento non fisico, ma che comunque tende ad isolare. Possiamo aggiungere dunque che il pregiudizio oltre ad intaccare la sfera personale, in maniera ancora più specifica va a toccare tutta la nostra sfera emotiva.
Lo stereotipo: un’immagine che preclude l’incontro
Esiste un’altra sfera che riguarda il pensiero condiviso su un determinato gruppo di persone, ma sempre senza una fondatezza che vada a confermare quanto affermato. Questi sono gli stereotipi, ovvero quella tendenza a generalizzare un’opinione verso un determinato gruppo di persone, non tenendo conto delle differenze tra individui. Si mantiene il proprio schema rigido, senza porre l’attenzione alle differenze all’interno del gruppo. In poche parole, fare di tutta l’erba un fascio. Fanno parte di noi e dell’immaginario comune anche se fatichiamo ad ammetterlo.
Gli esempi che possiamo fare rispetto a questo sono davvero tanti: le donne cucinano meglio degli uomini; tutti gli extracomunitari ci rubano il lavoro; i neri sanno giocare bene a basket; una donna che ha avuto diverse relazioni è una donna facile; tutti gli ebrei sono ricchi e banchieri; chi proviene dal nord è più serio e freddo, mentre chi proviene dal sud Italia è più accogliente e caloroso; la donna deve essere casalinga e l’uomo deve occuparsi di mantenere la famiglia. Questi sono solo alcuni esempi di stereotipi diffusi nei quali ci si può rispecchiare o meno e che in alcuni casi hanno trovato derivazioni estreme e tremende nel corso della storia dell’umanità. In altri casi (per fortuna) sono semplicemente utilizzati per scatenare una risata.
La comicità gioca con gli stereotipi
Da qui si può anche capire come alcuni meccanismi della comicità , basandosi su alcuni stereotipi, vadano a ricreare un immaginario comune per parlare di esperienze vicine a tutti creando semplice ilarità nel pubblico. Fu famoso un pezzo del comico Paolo Migone a Zelig, il quale esordì dicendo: <<nelle grandi città siamo sempre di corsa, sempre dietro al lavoro tutta la settimana, fino al week end. Poi arriva lei, la su’ moglie. E con l’occhio vitrio gli fa: tu. Oggi pomeriggio. Con il bimbo, me e la macchina. Andiamo, all’Ikea! Il grande magazzino!>>.
Risata e applauso del pubblico. Nell’immaginario collettivo era la moglie che a tutti i costi doveva costringere il marito ad accompagnarla all’Ikea nel week end, un’esperienza che probabilmente alcuni hanno vissuto personalmente, ma di sicuro non si può dire che tutti l’abbiano sperimentata e nemmeno che siano tutte le mogli così. Quanti mariti appassionati di arredo ci saranno e dei quali non sappiamo l’esistenza. Nell’immaginario collettivo però questa cosa, molto forte e radicata come stereotipo, funziona nel pezzo comico.
Tiriamo le fila su pregiudizi e stereotipi
La domanda ora potrebbe sorgere spontanea: ma quindi è possibile essere professionali in campo formativo, andando al di là dei pregiudizi dettati dalla propria sfera emotiva?
La risposta è sì.
Questa risposta può essere affermativa a partire da due elementi fondamentali che riprenderemo dal campo educativo.
Due strumenti a sostegno del formatore
Il primo è l’intenzionalità, ovvero l’essere consapevoli che le azioni che si andranno a svolgere all’interno del momento formativo confluiranno verso un obiettivo che al di là delle parti più specifiche, in generale dovrà coincidere con quella tensione nel voler promuovere la crescita e la consapevolezza nei formandi.
Il secondo aspetto è un concetto chiave che definisce l’atteggiamento tipico dell’educatore per leggere il mondo che incontra e in particolare le persone che ha davanti. Questo termine si chiama sospensione del giudizio. Fare epoché è un termine che arriva dal mondo della filosofia, ovvero di fronte ad una mancanza di elementi per potersi fare un’idea su qualcosa, si sceglie di non emettere un giudizio, ma lasciare che la novità arrivi, per conoscerla e incontrarla, anche se è al di fuori della propria idea di partenza o del proprio schema mentale.
Il formatore deve porre l’accento sul suo atteggiamento accogliente e aperto. È proprio questo che lo tutela dal rischio di apporre etichette oppure di avere un atteggiamento differente in base alla percezione che ha dei formandi. E’ un allenamento continuo e costante, mai arrendersi!
Manuel Carboni
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