Due frasi che d. Bosco usava spesso, anche se una più dell’altra. E nessuna delle due era in realtà sua. Però sono due frasi che ci aiutano molto. Nella formazione e nella vita.
Quando d. Bosco capì che il formare era tra il bene e l’ottimo.
C’è un aspetto della teologia spesso sottovalutato, che a me personalmente fa impazzire. È il cosiddetto “Magistero dei santi”, ovvero quello che i santi ci insegnano con le loro parole, le loro prassi, i loro scritti. I santi sono gli imprenditori di successo della teologia, le loro vite sono dei case study o case history, da usare per capire come si debba fare. I loro aneddoti sono perle di storytelling per motivare o aprire lavori su di sé e sul proprio gruppo di lavoro.
Io, ripeto, ne vado matto. Per tanti motivi. Ma il più importante me l’ha fatto capire l’opera di Antonio Sicari, “Ritratti di santi”, 15 libri con brevi riassunti della vita di santi e beati. Sicari ha uno stile lontano dall’agiografia in voga fino a inizi novecento: santi perfetti, irraggiungibili, quasi figure mitologiche. Qui invece vengono presentati in tutta la loro umanità, per questo si vede la loro vera grandezza nel rapporto con Dio e con gli uomini. E soprattutto, ogni storia di santi è un piccolo compendio di “teologia della santità”, che tradotto in termini semplici, significa che ogni santo ci insegna come fare a diventare santi e soprattutto che ognuno di noi può diventare santo.
Per questo nella crescita personale i santi sono degli ottimi testimonial, per tutti, cristiani e non.
Oggi voglio partire da un santo a cui sono legato e che non ha bisogno di grandi presentazioni: san Giovanni Bosco, o come è conosciuto ovunque, più semplicemente, don Bosco. Lo farò attraverso due frasi, che d. Bosco usava spesso, anche se una più dell’altra. Nessuna delle due era in realtà sua, tuttavia sono due frasi che ci aiutano molto. Nella formazione e nella vita.
La prima frase: “IL BENE VA FATTO BENE”, il come dice già il cosa
La prima frase è attribuita a molto santi. A don Bosco, a molti suo contemporanei e anche a molti altri santi successivi. “Il bene va fatto bene”. Di per sé la frase è attribuita a Diderot, e ci sono delle tracce anche in s. Vincenzo De Paoli che già diceva che il bene andava fatto con creatività e passione.
Che cosa significa fare bene il bene? Significa che il come si fanno le cose annunciano già le cose che vogliamo annunciare: si può comunicare la calma urlando? Significa che quando ci impegnamo a fare qualcosa il processo conta più della prestazione, anche se è ovvio che la prestazione vada fatta bene. Ma curare il processo, signfiica rendere migliori più prestazioni, significa capire che c’è altro oltre quello che faccio, significa che lascio il segno con il mio stile oltre che con una singola azione.
Di solito come frase veniva detta per incitare soprattutto la fedeltà. La fedeltà è un principio che ritorna in tutti i processi di crescita e di sviluppo. Anche oggi i guru del marketing ti dicono che bisogna esserci ed esserci con fedeltà: i social funzionano se sei presente con costanza e i clienti si fidelizzano quando non manchi agli appuntamenti.
Dalla fedeltà nasceva e ancora nasce, la coerenza. Della coerenza ho già parlato in questo articolo. La coerenza non è un bene in sé, ma è un additivo fondamentale ad ogni azione e ad ogni valore.
Fedeltà e coerenza creano stile. E lo stile annuncia, promuove, fidelizza.
La seconda frase: “L’OTTIMO È NEMICO DEL BENE”, la forza del limite umano
Quindi il bene va fatto bene. Eppure d. Bosco era solito citare spesso un’altra frase, con una ricorrenza anche maggiore: “l’ottimo è nemico del bene”. Anche qui la frase non è sua, la cita già Voltaire citando a sua volta un detto italiano.
C’è un episodio della vita di d. Bosco che riportava il salesiano don Pietro Braido, nel suo libro “Don Bosco. Profondamente uomo, profondamente santo“.
Don Bonetti avrebbe voluto che nel suo collegio tutto andasse a perfezione. Don Bosco gli scriveva: «L’ottimo è quanto cerchiamo», ma soggiungeva realisticamente: «Purtroppo dobbiamo accontentarci del mediocre, in mezzo a molto male».
Di questo parere non era s. Giuseppe Cafasso, sua guida spirituale. Un giorno, sul piazzale del santuario di S. Ignazio sopra Lanzo, discussero a lungo su questo punto, passeggiando su e giù.
Don Cafasso insisteva: «Il bene va fatto bene».
«Il bene – sosteneva il discepolo – talora basta farlo alla buona in mezzo a tante difficoltà». I due rimasero sulle proprie posizioni.
Don Bosco ha sempre insistito su questo punto. Perché? Con il linguaggio di oggi diremmo che l’ottimo è nemico del bene perché
- È una bella scusa. Una scusa per procrastrinare all’inifito, per non prendersi responsabilità. Si aspetta di essere in tanti per iniziare, si aspettano le condizioni migliori, si aspetta che cambi qualcosa e alla fine si aspetta sempre.
- Non abbiamo lo sguardo globale. A volte, a forza di migliorare un particolare, roviamo l’insieme. A volte, dobbiamo accettare un’imperfezione perché accanirsi, perdere ancora tempo, chiedere ancora più sforzo, creerebbe più danno dell’imperfezione che si voleva correggere. Da teologo so che si diventa santi solo da peccatori, un po’ come a dire che si diventa grandi solo da imperfetti, questo significa che dobbiamo accettare anche i nostri limiti e i limiti della situazione. Non possiamo controllare tutto, per questo non possiamo accanirci su un particolare.
Alla fine, quello che don Bosco diceva, era che se per fare il bene bene, si rinviava il bene possibile, allora davvero l’ottimo sarebbe un ostacolo. Perché il nostro essere limitati ci impedisce di avere una visione globale completa in ogni aspetto. Ma questa è anche una forza di serenità: ci fa lavorare a fare il meglio possibile e non il meglio idealizzato.
In conclusione
La domanda a questo punto diventa lecita e ovvia: che cosa dobbiamo fare? La risposta è semplice nella teoria, un po’ meno nella pratica. Si stare continuamente tra questi due poli: alzare il livello per non fare le cose mediocramente, accettare il limite delle nostre azioni, sapendo guardare l’insieme. Si tratta cioè di verificarsi continuamente, di vedere se stiamo facendo bene le cose o se stiamo deragliando nell’iperperfezionismo. Perché alla fine si tratta di questo e l’unico modo per difendersi è continuamente rispondere a due domande: posso migliorare quello che sto facendo? E quali sarebbero le conseguenze? Le due domande ci fanno evitare la mediocrità e la superbia, che sono poi le cause principali di una formazione sbagliata. Tra bene e ottimo, perciò. Con competenza e umiltà.
GG Cotichella