UOMINI CHE DIVENTANO PADRI

Parlare di un padre e della paternità, in un oggi ipermoderno, quando l’occidente sembra invaso da “problemi macro-sociali” che impegnano studiosi, ricercatori, politici ed economisti, potrebbe apparire strano, inusuale o quanto meno fuori da ogni corrente dell’attualità pedagogica. Un pedagogista prova a sfondare il tabù della paternità fornendo uno sguardo “altro” su questo tema.

Chi è un padre?

Il momento della nascita di una nuova vita, la nascita di un figlio, sancisce inesorabilmente anche la nascita di un padre. Una madre era già nata, quando per nove mesi ha potuto sentire il figlio crescerle dentro, divenire insieme a lei una sola cosa: ella in qualche modo è costretta dalla stessa natura a fare spazio alla nuova vita, a essere madre; per il papà è diverso. Lui nasce da un annuncio; ogni padre nasce da un annuncio. Il padre genetico nasce dall’annuncio della propria partner: “aspettiamo un bambino”, “sono incinta”, “diventeremo genitori”, sono tutte espressioni che richiamano alla mente voci, tonalità le più varie, emozioni, sentimenti positivi e, a volte, meno.

Un padre è sempre “adottivo”

Ma se è vero che tale atto, in qualche modo, “chiama alla vita” un’identità, non è altrettanto scontato che tale identità risponda con prontezza ed efficacia, poiché è appurato che «non è certo lo spermatozoo a definire cosa sia un padre» (RECALCATI Massimo, Cosa resta del padre?, p. 88). Volendo citare Françoise Dolto, pediatra e psicanalista francese:

«Spesso si fa confusione tra padre e genitore. All’uomo bastano tre secondi per essere genitore. Tutt’altra avventura è l’essere padre. (…) Tanto meglio, forse, se il padre è anche genitore, ma in fondo ci sono solo padri adottivi. Un padre deve sempre adottare il proprio figlio.» (DOLTO Françoise, I vangeli secondo la psicanalisi. La liberazione del desiderio. Dialoghi con Gèrard Sèvèrin, et al./Ed., Milano 2012, p. 14 in Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, op. cit., p. 146).

Una chiamata!

Il giovane uomo, informato della chiamata, spinto dalle esigenze della generatività, inizia un processo di ricerca di questa sua “vocazione”; per la donna questo processo è più diretto: il suo corpo è il «primo spazio di vita in comunità» (LACROIX Xavier, Passatori di vita, op. cit., p. 100), in quanto un essere è abitato da un altro essere. Il ventre materno è la prima dimora dell’essere umano. Quella della madre è una esperienza «interna», come la definisce F. Belletti (BELLETTI Francesco, Essere Padri. Aspetti esistenziali, emozionali e relazionali della paternità, ed. San Paolo, Milano, 2003, p. 38). «Esterna» è invece l’esperienza del padre, che deve mettere in gioco la propria volontà per giungere ad essere effettivamente padre e non solo “fecondatore”, mettere in gioco il proprio desiderio di risposta a quell’annuncio che certamente gli cambierà la vita. E, soprattutto, essendo «esterna» la sua posizione, l’uomo, è anche nella condizione di potersi permettere di fuggire, di non affrontare la responsabilità che deriva da quei «tre minuti» che non avranno così generato un “padre”, ma solo un “genitore”.

È un processo!

Arrivare a sentirsi padre è frutto di un processo interiore che esula dall’aspetto prettamente biologico e passa per quello affettivo. Lacan affermò con radicalità che «qualunque cosa» può esercitare la funzione del padre. L’uomo che ha generato è condannato a rimanere un padre biologico, nulla più che un “inseminatore”, a meno che non abbia il coraggio di mettere in gioco l’intera sua vita, con il carico della sua storia e del suo presente, e creare dentro di sé quello spazio psico-affettivo che gli permetterà di divenire un vero padre.

Il padre come simbolo

Il padre, abbiamo capito, non è una questione di genere, né di geni. Il papà è anzitutto un simbolo. Egli è rappresentanza, proiezione primordiale di quell’esperienza che rappresenta il seme d’ogni bisogno di preghiera, che genera la speranza o la disperazione. Essa è in qualche modo una esperienza universale intesa come segno della legge, di ogni limite, di ogni perimetro entro cui crescere, quello della castrazione è un tema che l’attuale ricerca psicanalitica affronta con puntualità, specialmente in alcuni esponenti di scuola lacaniana, tra cui non si può non menzionare Massimo Recalcati. Il complesso di castrazione fu enunciato per primo da Sigmund Freud negli anni Venti: esso è un meccanismo psicologico che fa da appendice al più famoso complesso edipico e che, come è facilmente intuibile, interessa i maschi. Si tratta di una paura innata di essere castrati che si può trascinare nell’età adulta e si manifesta come paura di esser puniti. Il complesso di castrazione è associato a una fortissima sensazione di angoscia le cui conseguenze variano per intensità e gravità.

Essere testimone

Quando Lacan afferma che «qualunque cosa» può “essere un padre”, si riferisce al concetto per cui l’eredità del papà, il vero dono che egli è chiamato a trasmettere al figlio, non consiste di cose materiali, non è eredità di sangue, ma è la testimonianza che la “legge” non è necessariamente una opposizione al “desiderio”, ma può esserne strada: e tale testimonianza può arrivare da “qualunque cosa”, non solo dal genitore biologico.

Ma quindi?

Alla luce di quanto detto possiamo provare a delineare i primi tratti del volto del padre; egli è anzitutto e sopra ogni altra cosa un “chiamato”: il padre è tale per mezzo dell’annuncio che ha ricevuto e per la risposta che ad esso è conseguita. Da questa vocazione egli crea in sé uno spazio di accoglienza psico-affettiva del figlio. Il padre è dunque un’identità responsabile, cioè capace di rispondere della propria genitorialità, biologica o spirituale che sia. Infine, il padre è un simbolo, qualcuno cioè che rappresenta qualcosa, più esattamente egli è rappresentazione del limite educante.

 

Simone Fichera

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