Uscire fuori dalla visione univoca che ingabbia il ruolo del manager. Allargare lo sguardo sulla leadership per tornare al compito originale di capi e direttori.
Manager sì o manager no?
Manager, direttori, responsabili, prime linee… tanti modi per indicare persone che nelle organizzazioni si devono occupare di settori, di aree cercando di rendere tutto il più funzionale possibile per il bene di tutta l’organizzazione stessa.
Scritto così va da sé che il manager debba occuparsi per forza delle persone che lavorano con lui (più che per lui) e che deve avere a cuore la vision e la mission dell’organizzazione.
Eppure, nel tempo si è imposta anche una loro visione negativa: se sei manager sei freddo, distaccato, magari anche avido. Le persone sotto ti criticano con la frase: “Si sente il capo di tutto, ma è un dipendente come me”; nelle organizzazioni sociali è visto come la peste: “Non ci crede, gli interessa solo il suo tornaconto, è proprio un manager!”. Anche nel mondo pastorale ci si tiene molto a sottolineare il distacco: “Il parroco non è mica un manager!”.
Insomma, se sei un manager sei sospettato a prescindere.
Un tema spinoso
Come siamo arrivati a questa situazione? Da una parte credo che ci sia l’idiosincrasia per le figure che ci guidano, i superiori, i capi. Dall’altra invece, il problema è molto più profondo e trova le sue radici nel cambio economico che ha portato il mondo imprenditoriale, più o meno negli anni 70, a pensare alla sostenibilità economica come l’unica sostenibilità importante, questo ha portato all’esternalizzazione di certe voci di costo, come le attenzioni ecologiche, e soprattutto alla creazione del mito del fatturato, della sola progettazione per obiettivi.
Oggi sappiamo che solo fatturato, solo obiettivi, solo prestazione è una via che porta all’autodistruzione delle persone e anche delle aziende.
Certo, la sostenibilità economica è la prima sostenibilità dell’impresa e certo che senza obiettivi non si va molto lontano, il problema è che abbiamo bisogno anche delle altre sostenibilità e abbiamo bisogno sempre di ricollegarci alla vision, al sogno.
Che c’entra tutto questo con i manager? In un’ottica di cambio di paradigma, l’impresa a servizio degli azionisti e non della comunità degli stakeholder, si è confusa la delega sana con quella insana, chiamando un esterno che potesse mettere ordine, licenziare, togliere tutti i rami secchi, spesso cambiando il criterio di scelta.
Ma il manager non può essere questo. Per fortuna, non lo è. Per capirlo ho fatto alcune ricerche partendo sul che cosa fa (o dovrebbe fare) e sul chi è (o dovrebbe essere)
Che cosa fa il manager
Scorrendo vari siti vedo che sono diverse le competenze richieste ai manager. Forse sono anche troppe! Per aiutarci a muoverci nel labirinto di richieste possiamo raggrupparle in tre macromondi.
CAPACITÀ DI PIANIFICAZIONE
È la dimensione del portare avanti e più avanti il proprio settore.
Richiede diverse competenze:
- Progettazione e pianificazione strategica: creare e indicare obiettivi per la vision d’impresa e programmare azioni corrette in tempi sostenibili.
- Networking manageriale: relazionarsi con quanto fatto dagli altri manager. Nessun ambito vive e funziona se gli altri non funzionano.
- Analisi dei dati: analizzare i dati per capire se sta andando bene, saper “rendicontare il proprio lavoro”.
- Gestione delle risorse: gestire strumenti e fondi, conoscendone il peso e il valore per poterli utilizzare al meglio.
- Conoscenza del settore lavorativo: informarsi sempre sul suo settore lavorativo, d’impresa e d’area, per riuscire a migliorare costantemente.
AUTOREVOLEZZA E FOLLOWERSHIP
È la dimensione del saper gestire le relazioni con le persone che lavorano con lui. Entrambe indicano un nervo scoperto delle relazioni, l’asimmetricità.
L’autorevolezza è il completamento dell’autorità data dal ruolo. Il ruolo è il riconoscimento dall’alto, ma dal basso va conquistato.
La followership è un neologismo che si sta imponendo e indica che la subordinazione non basta per essere seguiti. È necessario lavorare sul coinvolgimento di obiettivi comuni.
Queste due dimensioni richiedono nuove competenze.
- Delega: far compiere ad altri un lavoro in autonomia, con tre “doni”: delle buone consegne, dei buoni strumenti e dei buoni feedback.
- Motivazione: andare oltre “pia esortazione”, con il coinvolgimento nel creare obiettivi comuni e il lavoro di crescita del proprio personale.
- Inclusione: saper mettere a proprio agio ogni persona nel fare il proprio lavoro.
LEADERSHIP
Come altri, condivido l’idea che la leadership più che una competenza è una somma di competenze. La leadership è davvero una competenza solo quando si parla di leadership di sé. Si tratta del lavoro da fare per essere visti come punti di riferimento. È il passo collegato direttamente con l’autorevolezza. Anche qui, abbiamo diverse competenze.
- Decision Making: Costruire le decisioni è più di prenderle. Perché si sa dire perché si è presa proprio quella decisione, si è responsabili del processo, si sa crescere da eventuali errori.
- Problem setting e pensiero laterale: porsi problemi per cercare nuove strade.
- Self management (punti deboli e forti): conoscersi, sapendo dove lavorare e capendo se è migliorato o meno.
- Comunicazione efficace: altrimenti non si può gestire un team, non si possono avere relazioni esterne.
- Essere d’ispirazione: al di là dell’essere carismatici, lavorare su due dimensioni: avere una visione e saperla comunicare.
Chi è un manager
Ma al di là di che cosa deve fare, chi è davvero un manager
Letteralmente un manager è colui che gestisce un ménage, che indica l’andamento di una casa prevedendo una convivenza (anche intima visto che ménage à trois significa triangolo amoroso). Questo ci dice una prima caratteristica: il manager ha una cura relazionale molto alta. Anche se responsabile e quindi “superiore”, tratta gli altri con una cura particolare, che sa di casa. Tra l’altro si chiama ménage anche l’insieme dei contenitori che contengono olio, aceto, sale, pepe. Ed è interessante che alla base ci sia qualcosa che deve dare più gusto, più sapore, ma che deve essere necessariamente equilibrato per evitare brutte sorprese!
In italiano è legato al maneggiare, perdendo molto della dimensione relazione, ma aprendo alla seconda caratteristica: c’è del lavoro da fare pratico, concreto.
Inoltre, in italiano, si intende anche il gestire dei cavalli, il famoso maneggio. E questo ci dice una terza caratteristica: si fanno lavorare altri, che ci fanno vincere, se vincono loro.
Il manager, quindi, è un responsabile o direttore che gestisce un ramo d’impresa o un’impresa stessa, di cui però non è proprietario. Gestendo questa, gestisce risorse e persone, deve perciò avere due dimensioni spesso in antitesi: gestire le relazioni (la casa) e gestire la sostenibilità (gli affari). La scelta di gestirne solo una delle due è ormai fallimentare.
In conclusione
Sapendo davvero che cosa fa il manager e che cosa è chiamato a essere, possiamo fare un subito un controllo di come siamo messi, se per caso nella nostra vita fossimo manager o volessimo farlo. Anche perché manager è la traduzione di responsabile e oggi quanto mai urgente avere gente responsabile in ogni impresa.
Gigi Cotichella
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