Inizia una nuova rubrica in cui i temi teologici incontrano le domande formative. Un modo per approfondire con un altro sguardo e uscirne arricchiti tutti, al di là di fedi, appartenenze, idee.
L’ANSIA NEL FORMARE E IL CREDERSI DIO
Forse la domanda è un po’ troppo diretta, solo che ultimamente mi è venuta tante volte: Gesù aveva l’ansia da prestazione? Ammetto che c’era parecchia proiezione, ma devo dire che è stata utile per capire meglio che cosa sia l’ansia da prestazione e come abbia risposto lo stile di Gesù.
L’ansia… c’è sempre?
Ogni volta che ci mettiamo in gioco, ogni volta che facciamo un’azione non abitudinaria con un obiettivo da raggiungere, noi ci agitiamo. La prestazione, cioè l’idea che il nostro fare debba confrontarsi con un successo o insuccesso nell’immediato, ci mette in agitazione, ci smuove l’adrenalina e un’altra serie di sostanze endocrine che ci possono far andare su di giri.
Sappiamo tutti che è normale, come sappiamo che che troppo spesso si esagera.
E quand’è che si esagera? Quand’è che abbiamo la vera ansia da prestazione? Vediamo alcune caratteristiche.
- Il risultato è correlato al giudizio degli altri. Il vero problema dell’ansia da prestazione è quando la nostra realizzazione, la nostra fiducia in noi stessi, è troppo sbilanciata verso i giudizi esterni. Gli altri ci aiutano a capire chi siamo, ma non possono deciderlo totalmente.
- Lo stress non è più “anche” positivo. C’è uno stress positivo che ci fa crescere e migliorare. La confort zone è sempre negativa, mentre lo stress è sia positivo che negativo. Nel caso dell’ansia da prestazione, tutto lo stress è vissuto come negativo.
- Lo stress è al di là della prestazione. Ben presto l’ansia da prestazione aumenta la sensazione di panico anche fuori dalle attività stressanti. Fin dall’inizio immaginiamo la nostra giornata catastrofica e questo non fa che peggiorare la situazione.
- La prestazione diventa maggiore del processo. Apparentemente innocua, è in realtà la condizione che alimenta l’ansia: se il processo rimane maggiore della prestazione, io posso andare al di là del fallimento, perchè vedo il resto della partita dopo un gol subito, il campionato dopo una sconfitta, il nuovo torneo dopo una retrocessione. Se questo non accade, anche un semplice passaggio sbagliato può fermarmi del tutto.
Gesù invece era libero
La sua libertà era data dall’andare in profondità negli argomenti. Per questo ai farisei può contestare una legge che da 10 comandamenti è arrivata a oltre 600 precetti. Non a caso si dice fariseismo, l’atteggiamento di chi pensa più all’apparenza che non alla sostanza.
Gesù era libero perché aveva chiaro l’obiettivo di vita e lì puntava, pagando anche le conseguenze in termini di crearsi dei nemici.
Tuttavia, era libero anche dal giudizio dei vicini. Quando tutti lo seguono, ha parole dure perché capisce che molti lo seguono per i miracoli che fa (prestazione) e non per i motivi per cui li fa (processo). Non annacqua i suoi ideali quando i primi discepoli se ne vanno perché il linguaggio è duro, ma aggiunge deciso agli apostoli rimasti, «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv 6,67). «»
Gesù sapeva stressarsi bene
Per la sua missione non aveva molti momenti liberi. Ne è consapevole, tanto da dire a chi vuole seguirlo: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58).
Una volta, dopo che gli apostoli erano tornati dalla missione affidatagli, egli ha parola di cura e dice loro di andare in un luogo in disparte a riposare. Il piano sembra perfetto, eppure, come dice Marco, «molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,33-34).
Si ridona continuamente alla sua missione perché ci crede. Confucio diceva: «Fai quello che ami e non lavorerai neanche un giorno in tutta la tua vita». Gesù, lo applica. Pienamente.
Gesù viveva bene il momento
L’ansia da prestazione può portare a gravi problemi fisici: insonnia, disturbi sessuali, rabbia, fino ad attacchi di panico e veri proprie patologie somatiche. Gesù vive bene le emozioni: si commuove per Lazzaro, gioisce per il successo dei discepoli, si arrabbia molto per i mercanti. E poi vive l’agonia nel Getsemani. È un passo che sorvoliamo. Eppure lì si arriva a dire che «essendo in agonia, egli pregava ancor più intensamente; e il suo sudore diventò come grosse gocce di sangue che cadevano in terra» (Lc 22,44). È un particolare che riporta solo Luca, l’evangelista che la tradizione vuole medico. L’ematoidrosi, questo il termine scientifico, è un fenomeno raro in natura, di cui le spiegazioni sono ancora ignote. Si sa solo che è collegato a un forte evento stressante. Gesù lo vive, possiamo immaginarlo come un attacco di panico fortissimo, inaspettato.
Eppure dopo pochi minuti, Gesù sa rispondere a tono a Giuda, sa fermare la rivolta dei discepoli e guarisce l’orecchio di un servo colpito proprio dai suoi discepoli. Perché non avere l’ansia da prestazione, non significa non vivere la paura, l’agitazione. Significa, invece, non dargli più spazio di quello che deve avere, perché il coraggio non esiste come emozione, come emozione esiste solo la paura. Il coraggio è la decisione della volontà di rispondere alla paura.
Claudio Baglioni cantava: «Tra sparare e sparire scelgo ancora di sperare». Sparare e sparire sono le due opzioni che ci dà l’ansia da prestazione. Scegliere di sperare, è la firma di chi vuole fare la differenza, accettando le emozioni che si vivono, sapendo anche andare più in là.
Gesù vive l’imprevisto nel processo.
Un vecchio adagio, dice che «Gesù lavorò trent’anni, predicò tre anni, compì tutto in tre giorni, soffrì tre ore». Al di là di alcune evidenti limitazioni (Gesù non soffrì solo tre ore!) è vero però che la vita di Gesù sembra proprio un convincersi sempre di più della sua missione, fino ad arrivare a mettersi risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme (Lc 9,51). Andare a Gerusalemme, diventa l’obiettivo, il realizzarsi. Oggi diremmo che dobbiamo eliminare ogni distrazione, che ciò che conta è la meta finale.
Gesù opta per un’altra modalità: tutto deve rientrare nel senso ultimo del suo andare a Gerusalemme, perciò nel suo “non perdere tempo”, egli trova il tempo per guarire una paralitica, un idropico, dieci lebbrosi, un cieco, trova il tempo di andare a casa di Marta e Maria, scovare Zaccheo, benedire dei bambini, parlare con un giovane ricco, scacciare i mercanti, pagare le tasse, contestare i sadducei, notare una vedova. Persino in croce trova il tempo di dedicarsi a un farabbutto, suo collega di pena. E avremo così il primo santo patentato. Gesù ha un obiettivo, ha un progetto, ma sa accogliere la vita, che è sempre più grande di ogni progetto umano. Gesù sa vivere il quotidiano nella tensione finale. Perciò ogni contrattempo non è più tale: tutto può essere d’aiuto a costruire il progetto finale.
In conclusione?
Ho iniziato l’articolo puntando sull’ansia del formare e il credersi Dio come formatori. Essendo teologo mi è semplice vedere Gesù come Dio. E mi aiuta molto pensare che se chi è Dio non avuto l’ansia da prestazione pur accettando di essere uomo, allora esiste una strada per tutti noi.
Perché credersi un dio prima o poi fa fare gli errori da ansia da prestazione.
Gesù regala a tutti, cristiani o non cristiani, un vademecum perfetto per vivere bene anche il più grande degli impegni senza ansia da prestazioni
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- Dare il giusto spazio al giudizio degli altri. Ascoltare cosa dicono gli altri e poi riportarlo in spazi interiori dove mettere insieme il tutto: quello che dicono gli altri, quello che sentiamo, quello che abbiamo deciso e poi via. E poi diciamolo… in un tempo di leoni da tastiera, un bel po’ di commenti vanno eliminati alla base.
- Rinnovare lo stress positivo. Come si fa? Per assurdo creandosi delle sfide personali. Partendo da cose leggere, da piccoli obiettivi raggiungibili e migliorabili. Concedendosi il festeggiamento di quelli raggiunti. La celebrazione migliora l’autostima e il darsi piccole sfide ci fa fare cose belle lontano dal giudizio degli altri.
- Crearsi delle oasi. Se non stacchiamo mai, prima o poi l’ansia ci assalirà. E dobbiamo staccare non dall’identità ma dalla prestazione proprio per rinnovare l’identità. La natura ci dice che fa parte della prestazione, la non-prestazione. Il lavoro chiede il riposo, la terra coltivata chiede il maggese, la quotidianità la vacanza, la ferialità la festa. Se non le rispettiamo crolliamo.
- Lavorare sempre sui processi. Avere sempre obiettivi a effetto immediato, a effetto medio e a effetto lungo. Lavorare su obiettivi-scopi e fini. I primi dicono le sfide misurabili, i secondi dicono lo stile. Lo stile è importante perché quando perdiamo abbiamo sempre un punto da ripartire. Ricominciamo da tre, per citare l’indimenticabile Troisi, perché qualche cosa l’abbiamo imparato.
- Dare il giusto spazio al giudizio degli altri. Ascoltare cosa dicono gli altri e poi riportarlo in spazi interiori dove mettere insieme il tutto: quello che dicono gli altri, quello che sentiamo, quello che abbiamo deciso e poi via. E poi diciamolo… in un tempo di leoni da tastiera, un bel po’ di commenti vanno eliminati alla base.
Gigi Cotichella